È un dato di fatto, messo nero su bianco dalla Fipe (un acronimo che si contendono in due, la Federazione Italiana Pubblici Esercizi e la Federazione Italiana Pesistica: qui evidentemente si tira in ballo la prima). Durante la pandemia 120 mila lavoratori a tempo indeterminato nel settore dei pubblici esercizi hanno deciso di cambiare mestiere, e non sono stati ancora rimpiazzati. Il motivo di questo “buco” è semplice: non si trova con chi rimpiazzarli. E dopo l’estate, affrontata con fatica attingendo dagli stagionali, nel mese di ottobre sono mancati all’appello circa 40 mila professionisti, divisi tra camerieri di sala, cuochi e aiuto cuochi, pizzaioli, baristi.
Le cause? Alessandro Borghese, in una recente intervistata rilasciata a Cook, prova a sintetizzarle: “Non credo che la figura del cuoco sia in crisi, ma ci si è accorti che non è un lavoro tutto televisione e luccichii. Si è capito che è faticoso e logorante. E mentre la mia generazione è cresciuta lavorando a ritmi pazzeschi, oggi è cambiata la mentalità: chi si affaccia a questa professione vuole garanzie. Stipendi più alti, turni regolamentati, percorsi di crescita. In cambio del sacrificio di tempo, i giovani chiedono certezze e gratificazioni. In effetti prima questo mestiere era sottopagato: oggi i ragazzi non lo accettano“.
E ancora Borghese, sollecitato dalle domande di Alessandra Dal Monte: “Con le chiusure tante persone hanno avuto la possibilità di stare in famiglia. E hanno cambiato mestiere per avere più tempo. Il tempo, oggi, è la vera moneta. La mia stessa brigata si è rivoluzionata radicalmente: sono andate via figure che stavano con me da più di dieci anni, sono tornate nelle loro regioni d’origine, dove hanno scelto un lavoro che richiedesse meno fatica psicologica, mentale e fisica“.
Quanto venga data per scontata la durezza del lavoro, lo sottolinea Enrico Bartolini, lo chef più stellato d’Italia, in un articolo su IlGusto relativo al divorzio consumatosi con lo chef Franco Aliberti: “A fine agosto Franco mi ha comunicato che per seguire la malattia di un parente non voleva più lavorare colazione, pranzo e cena come è necessario in un albergo”. Lavorare colazione, pranzo e cena è ritenuto dunque un requisito necessario per lavorare in un albergo di un certo tipo.
Molti aggiungono tra le cause il reddito di cittadinanza, che avrebbe disincentivato la professione. Mentre tanti titolari ascoltati in questi ultimi mesi affermano che non è solo questione di stipendio o garanzie: “C’è una vera rivoluzione in atto – dicono – ma quanto potrà durare? Prima o poi molti che hanno scelto una nuova vita dovranno fare i conti con la realtà del lavoro e delle spese quotidiane“.
Nel solco di questa riflessione, un paio di settimane fa i tipi de Les Rouges – il cocktail bar di Genova con una sua emanazione anche a Milano – hanno spiegato tramite un post Facebook il perché di orari più limitati, dopo la pandemia: “La pandemia, tragica sotto molti punti di vista, ci ha insegnato una cosa. Ci ha insegnato che il tempo ha un valore, che il lavoro è importante ma forse è più importante prendersi il tempo di vivere la vita. Nel nostro settore è normale vedere persone che lavorano 12/13/14 ore al giorno, sei giorni a settimana. Non che prima andasse bene, ma dopo la pandemia, fare 300 ore al mese è diventato intollerabile. Quindi per questo chiudiamo “presto”, per poter avere un ritmo di vita normale, per poter, sembra strano doverlo riaffermare, lavorare 8 ore al giorno“.
Tantissimi gli apprezzamenti, molti i commenti positivi, come si può leggere dal post sotto.
E dunque? Che cosa ci raccontano queste testimonianze? Difficile leggere nella sfera di cristallo, e interpretare nel lungo periodo una crisi che di fatto ha stravolto certezze che davamo per scontate. Di certo, come ogni crisi implica e ci insegna, si è acuita la distanza tra le classi, e in questa dialettica va anche inserito il dibattito in corso.
Difficile trovare una lettura univoca: applaudire chi sceglie di lavorare meno non significa non apprezzare chi ha fatto il possibile per salvaguardare un’attività e i relativi posti di lavoro e che ancora oggi fa lo straordinario per far quadrare i conti. Ogni attività ha la propria storia, dinamiche personali, il proprio punto di (decorosa) sopravvivenza.
Ma per far sì che in futuro andare al ristorante o trovare un bar sotto casa non sia un lusso per pochi, occorre ripensare questo settore. Creando per esempio un legame concreto tra chi è atto alla formazione (scuole professionali, corsi di formazione) e il mondo del lavoro, ma anche un soggetto credibile a cui affidarsi al momento della ricerca personale (che non sia il semplice passaparola o il post su Facebook). E poi con riforme strutturali, auspicate da tutti (datori e dipendenti inclusi), per ridurre la burocrazia, abbassare il costo del lavoro e valorizzare un comparto sul quale l’Italia dovrebbe costruire parte del suo futuro.
Altrimenti quel grembiule rimarrà senza padrone, ma non si troveranno più nemmeno giovani disposti al rischio d’impresa.