Ho scoperto il segreto del cocktail perfetto un paio di anni fa. Ero a casa di un amico e, con un Negroni fra le mani, gli domandai cosa rendesse perfetta la miscela che avevo nel bicchiere. La risposta mi stupì, perché l’ingrediente nascosto era in realtà il più semplice di tutti, ovvero il composto senza cui non esisterebbe alcuna forma di vita sulla terra: l’acqua. Ma allo stato solido. Contrariamente alla vulgata, che lo vorrebbe responsabile dell’ipotetico annacquamento, il ghiaccio permette invece di mantenere fredda la bevanda, di goderne nel modo giusto e soprattutto più a lungo. Da quel giorno, perciò, il mantra che guida la mia scarsa “arte del bere in casa” è il seguente: il ghiaccio non è mai abbastanza.
Certo, bisogna anche ricordarsi di farlo. E non è così scontato, almeno per me.
Così, più di una volta, mi è capitato di dover bussare alla porta della vicina – che sarebbe mia zia – e di sfruttare biecamente la sua sapiente previdenza. È stato però in una di queste sere sbadate che, complice un sacrosanto rimprovero, ho collegato un po’ di pezzi del puzzle. E il motivo per cui adesso sono qui a scrivere queste righe ne è conseguenza diretta.
Il ghiaccio, che oggi è nella casa di chiunque (non nella mia evidentemente!), per scopi alimentari o terapeutici, non è sempre stato nella casa di chiunque. Uno dei primi ricordi della mia vita è la serpentina della fabbrica del ghiaccio di via Venezia a Genova. Assieme al mio babbo, che allora mi sembrava altissimo, passavamo da piazza Sopranis e, ancora più in alto della sua testa, i piccioni si abbeveravano dall’acqua che scendeva da quell’edificio di cui non capivo l’utilità. La mamma il ghiaccio lo faceva in casa: perché mai doveva esserci una fabbrica che lo produceva?
La domanda non era propriamente campata in aria e, nonostante quell’alto signore provasse a spiegare il ciclo del ghiaccio a suo figlio di tre anni, la fabbrica del Ghiaccio S.A.I.G, acquistata nel 1887 dalla famiglia Saglietti da un proprietario che aveva ghiacciaie naturali sul passo della Bocchetta, chiuse da lì a poco. Era il 1984.
Questa esperienza del ghiaccio, però, me la sono sempre portata dietro e, complice la passione adulta per gli spazi aperti, ho scoperto un’altra parte del mosaico tra i boschi delle alture genovesi. Ed è stato proprio qui che ho appreso come veniva prodotto e commercializzato il ghiaccio ai tempi della Repubblica di Genova. Per tanto tempo e molte volte, infatti, sono passato vicino ad enormi buchi nel terreno, con affianco un palo arrugginito, piegato dal vento, che raccontava come la necessità di avere la disponibilità di un refrigerante per utilizzi vari, avesse spinto le popolazioni a conservare, per il periodo estivo/primaverile, la neve caduta in inverno nelle neviere. La storia è nota, ma curiosa. E quindi la riassumo.
Nel 1640 venne istituita la cosiddetta “gabella della neve”, con cui la Repubblica di Genova vendeva – ca va sans dire – il diritto esclusivo ad esercitare il commercio del ghiaccio ad un unico impresario. In pratica accadeva che l’appaltatore, dopo una nevicata, assoldasse dei lavoratori giornalieri il cui compito era quello di riempire le neviere. Quei buchi di cui scrivevo qualche riga fa, erano – anzi sono ancora – pozzi conici, con un muro di sostegno in pietra a secco, profondi 4/5 metri e con un diametro di 10/12 metri. La neve, quindi, una volta raccolta, veniva immessa, pressata e conservata nelle neviere, il cui isolamento termico era garantito da uno strato di foglie secche (oltre che dal tetto costruito in paglia). Questo fino all’estate, quando i dipendenti dell’appaltatore – rigorosamente di giorno – salivano alle neviere e tagliavano la neve ormai trasformata in ghiaccio. Durante la notte, per limitare la fusione, i prismi tagliati venivano portati verso la città a dorso di mulo e, in sacchi di iuta, trasportati fino al magazzino in Vico Neve, vicino a piazza Soziglia. Qui le 15 rivenditrici stipendiate dall’appaltatore si rifornivano e poi vendevano il ghiaccio a chi ne aveva bisogno.
Se vi state chiedendo fino a che anno questo sistema è rimasto in auge, la risposta è: 31 dicembre 1870. Con l’industrializzazione, ovviamente, le neviere vennero progressivamente abbandonate e 17 anni dopo venne costruita proprio quella fabbrica che ammiravo da bambino e che oggi è un supermercato nel quartiere di San Teodoro. Ci sarebbe molto altro da raccontare sulle neviere e sulla produzione del ghiaccio naturale nel Genovesato, ma sono temi che potete trovare più ampiamente trattati sul sito dell’Istituto Internazionale di Studi Liguri.
Quanto a me, che dire? Sono figlio dei frigoriferi e degli inverni senza pioggia. Se i miei genitori compravano il ghiaccio al dettaglio dai carbonai (che a loro volta lo prendevano dalle fabbriche del ghiaccio), io non ho mai conservato un cibo o raffreddato una bibita se non aprendo o chiudendo uno sportello.
L’unica cosa che mi manca è la memoria. Ma forse quella manca un pò a tutti. Soprattutto oggi.