Nuovo capitolo di YLP, siamo a Ventimiglia, per incontrare un ragazzo giovane, cuoco di frontiera e non solo, che ho conosciuto ed apprezzato molto qualche anno fa: Diego Pani.
Ci troviamo al Marco Polo 1960 un nome che è anche una storia.
Prima con i nonni Maria e Oreste, poi con il papà Marco, questo luogo ha portato in città una ventata di raffinatezza e qualità sopraffina che non è mai passata inosservata ed oggi, con Diego ossia la terza generazione alla guida del ristorante, continua ad essere un punto di riferimento per chi sa cosa vuol dire gustare il pesce.
Diego ha un’eleganza tutta sua nel modo di esprimersi da cui emergono rigore, gentilezza e molta conoscenza. Tanta ammirazione e riconoscenza nei confronti del papà Marco che gli ha insegnato tutto quello che oggi sa.
Rimango sempre colpita da quel suo intercalare “voilà” che forse nemmeno si accorge di usare con questa spontaneità, ma potrei anche raccontarvi di quella volta in cui dopo una cena al Marco Polo abbiamo cantato al suono della sua chitarra davanti a una sfilza di bollicine e un magnifico piatto di spaghetti al pomodoro fino alle 4 del mattino, ma questa è un’altra storia…
Mentre mi racconta un po’ di lui e del suo passato, Diego mi svela in anteprima per Basilico.it qualche novità che riguarda il futuro, una prossima nuova apertura non lontano dalla sua maison mère.
Benvenuto su YLP! Vedo che sobbolli come un ragù per le tante cose da dire quindi partiamo subito: quando hai deciso che avresti passato la vita ai fornelli?
Da bambino volevo fare l’astronauta e i miei genitori mi hanno sempre sconsigliato di fare questo mestiere, però sono cresciuto in una famiglia in cui era scontato che nei weekend si aiutasse al ristorante, perciò per quanto non volessero alla fine è stata colpa loro….o forse merito, perché in adolescenza avevo già capito che avrei fatto questo.
(sorride compiaciuto)
Idee chiare piuttosto presto quindi. Tanti lavorano nel locale di famiglia, ma non è affatto scontato che escano da quelle quattro mura per vedere cosa c’è al di fuori… per te com’è stato?
Questo lo so, inconsapevolmente sono stato lungimirante, sapevo di voler nel tempo portare avanti la mia tradizione familiare, ma al tempo stesso avere anche una mia identità.
Anche se era la via più scomoda ho deciso di andare via, ma ispirandomi al poeta tedesco Novalis quando scrisse “sto sempre andando a casa” credo che il giorno in cui sono partito per il mio viaggio di andata ho iniziato anche il mio viaggio di ritorno.
L’obiettivo era tornare, ma per poterlo fare c’era bisogno di un percorso.
Ripercorriamo le tappe più salienti della tua prima giovinezza in giro per cucine (e che cucine)!
La prima tappa è stata l’Argentina, per la precisione la Patagonia dove ho passato intere settimane a sfilettare trote da Philippe Bergounioux ritiratosi a vita privata dopo le 2 stelle all’Auberge des Templiers.
La seconda tappa è stata questa volta in una cucina professionale al Nolita di Parigi con Vittorio Beltramelli, chef ambasciatore della cucina di Gualtiero Marchesi in Francia.
Da qui una stagione a Monte Carlo nel Restaurant du Métropole di Joël Robuchon anche se il mio sogno è sempre stato quello di lavorare con Ducasse e così mandai il mio curriculum.
Dopo alcuni mesi mi chiamarono dall’Hotel de Paris per un colloquio, per me l’obiettivo finale sarebbe stato il Louis XV ma per arrivarci avrei dovuto fare un po’ di strada…
A fine colloquio il responsabile HR mi disse “C’è una persona che avrebbe piacere di conoscerti” e fu così che conobbi Alain Ducasse in persona! Penso di essere stato l’ultimo commis della storia ad aver fatto un colloquio con lui.
Mi hanno spedito a lavorare all’aeroporto di Charles de Gaulle in una sorta di secret lounge non aperto al pubblico, ma solo per autorità e diplomatici di tutto il mondo.
Col senno di poi mi sono accorto che questa esperienza mi ha permesso di cucinare per tante nazionalità contemporaneamente e di conseguenza porre l’attenzione ai gusti e alle necessità dettate dalla provenienza di ognuno.
È importante che il cuoco sia almeno in parte al servizio del cliente e non il contrario, il cliente deve poter scegliere. Io non apprezzo molto quei posti in cui non puoi nemmeno decidere se fare un degustazione o scegliere due piatti alla carta.
Un conto è la trattoria con il menu del giorno in cui arrivi e mangi quello che c’è, ma nella ristorazione di un certo tipo trovo che il lusso della scelta sia una cosa apprezzabile.
Mi trovi d’accordo, ma stai tergiversando non siamo ancora arrivati all’apice della tua avventura francese.
Dopo alcuni mesi mi dicono “sei pronto per il Louis XV” e così tutto contento accetto, vado a firmare il contratto e mi rimetto in volo per tornare a lavorare.
Quella mattina il mio babbo ha avuto forse la più grande soddisfazione da parte mia, perché all’entrata dell’aeroporto incontro di nuovo Ducasse che stava uscendo, allora lo fermo e gli dico “Chef! Adesso vengo a Monte Carlo!”
Lui mi fa i complimenti e poi fa una cosa che ricorderò per sempre: si avvicina all’auto di mio padre che era fermo lì davanti, si affaccia al finestrino e mi elogia con lui, dicendogli “adesso ci occupiamo noi di Diego”.
Suona un po’ minaccioso se ci pensi, ma dev’essere stata una bellissima scena.
Quindi Louis XV e qui è stato come te l’aspettavi? Quali insegnamenti ti sei portato dietro?
In quella cucina sono diventato cuoco e uomo. È stata un’esperienza veramente difficile da affrontare, ma non ho mai più trovato un livello di rigore e perfezione in nessun’altra cucina che abbia frequentato.
Ho imparato che il fine è lasciare il cliente estasiato quando servi un piatto, ma senza che il tuo sia un esercizio di stile, il tuo lavoro per quanto intenso e lungo non deve trasparire, non deve pesare su chi assaggia.
Questo è stato un insegnamento fondamentale su cui baso ogni giorno il mio lavoro.
Dopo due anni stravolgenti ho lasciato alla volta di Guy Savoy a Parigi dove ho trovato una simpatica connessione con la Liguria: uno dei suoi signature è la zuppa di carciofi e tartufo nero, ma si dice che a Ventimiglia venga meglio perché usciamo i carciofi di Albenga…
Torniamo in Liguria finalmente! Fai ritorno a casa e?
E inizia una rivoluzione gentile. A questo punto mi ero meritato di avere voce in capitolo dopo queste esperienze, quindi mio padre ha iniziato a fidarsi delle mie idee. Abbiamo iniziato questo percorso che gradualmente e senza strappi ha fatto in modo che ci fosse continuità fra la sua e la mia cucina.
La mia cucina è stata ben definita un “vintage contemporaneo”, fatto sta che quando arrivo tolgo di mezzo roner, spume e tutto quello che ha rappresentato l’avanguardia di una ventina di anni fa.
Ovviamente la tecnologia è funzionale, lo riconosco e la apprezzo quando serve, ma abitualmente al Marco Polo si cucina solo con il fuoco.
Questa della fiamma viva è una tendenza che in Italia negli ultimissimi tempi sta di nuovo prendendo piede, come in tutti settori ci sono delle fasi e piano piano vediamo dileguarsi i tecnicismi molecolari e affini.
Ma il mortaio? Ricordo un tuo piatto a base di burro condito con burro in un mortaio.
La rivincita del mortaio! Un attrezzo immortale.
Non lo dico per campanilismo, ma perché è uno strumento perfetto, un vero esempio di design quando l’arte incontra la funzionalità. Infatti lo uso per tante preparazioni.
Tu sei un cuoco di frontiera, è piuttosto chiara ed evidente la tua devozione alla cucina francese, ma come ti rapporti alla cucina italiana? E c’è qualche collega che ammiri particolarmente?
Proprio perché sono un cuoco di frontiera, amo e rivendico la mia italianità, tanto di quello che so fare l’ho imparato qui con mio padre, ma poi ho ritenuto necessario andare a formarmi in Francia perchè le basi della cucina sono indiscutibilmente francesi.
L’Italia è un paese più giovane e gastronomicamente molto frastagliato, abbiamo tradizioni regionali estremamente diverse da nord a sud, tranne in effetti una cosa che accomuna tutti: il soffritto.
E per rispondere alla tua domanda, direi che per assonanza con quella che è stata l’impostazione con cui sono cresciuto, cioè cucinare molto, fare piatti davvero cucinati, se oggi fossi un 19enne che inizia a formarsi per grandi cucine andrei senza dubbio da Uliassi.
Cosa ne pensi di questo moto di rivoluzione legato alla ristorazione per cui lavorare in cucina è sempre più spesso ritenuto insostenibile in termini di qualità della vita e qualità del lavoro? La settimana corta in cucina ha senso?
È un discorso ampio e molto interessante. Certamente il mondo è cambiato, per cui anche i ristoranti in cui da ragazzo sognavo di lavorare con una coda davanti a me di mille persone, oggi faticano a trovare personale e questo la dice lunga.
Da un punto di vista umano il settore della ristorazione è probabilmente uno dei meno “confortevoli”, ma io penso che se tu vuoi andare a lavorare in un posto di livello e imparare certe cose, non rompere le scatole! Se non ti va bene vai a lavorare nel bistrot sotto casa, le prepotenze che io ho subito mi hanno fatto un gran bene, per me il rigore estremo è stato altamente formativo.
Per quel che riguarda gli orari, penso che il problema di fondo sia banalmente il “sistema Italia”, perché io assumerei molte più persone per permettere loro di ruotare e sostenere turni differenti, ma i costi dei dipendenti non sono sostenibili in questo momento, io non posso permettermi di avere due brigate.
Altra cosa da dire è che da sempre il Marco Polo tende a non cambiare troppo spesso il personale, ma a dare continuità, ci tengo che i miei dipendenti stiano con me il più a lungo possibile e questo posso farlo assicurando loro una buona qualità di vita.
Per me essere stato dall’altra parte prima che datore di lavoro è stato fondamentale, perché so quanto sia importante far star bene le persone che lavorano con te.
Veniamo alle novità: “Let me taste the DolceVita” è lo slogan del tuo nuovo progetto Locanda Marinai, raccontaci qualcosa…
Tempo fa, a Bordighera Alta, sono entrato a vedere un forno di un ristorante che stava chiudendo e sono uscito con l’obiettivo di rilevare il posto.
In qualche modo è anche un ipotetico piano B qualora le prossime direttive Bolkestein dovessero costringere il Marco Polo a chiudere, come sai noi dipendiamo da una concessione balneare avendo lo stabilimento unito al ristorante.
Quindi da metà Giugno aprirà Locanda Marinai in questo bellissimo borgo, con un format molto italiano. Il cuoco non sarà una star, il fulcro sarà la convivialità.
Come si può intuire dallo slogan cercherò di ricreare quell’atmosfera che si viveva negli anni ’60 in Italia quando le persone avevano davvero voglia di uscire e svagarsi, la cucina sarà di stampo classico nazionale andando a recuperare quei piatti un po’ maltrattati e dimenticati, quindi si potrà mangiare un vero cocktail di gamberi, un vitello tonnato…e sarà bandita la parola RIVISITAZIONE!
Ormai in Italia se non fai cucina creativa sei sfigato, ma dato che io credo molto nel sostengo dei borghi del nostro Paese, dove c’è un gran turismo internazionale, bisogna anche offrire quei piatti magari considerati da noi “banali” ma che all’estero sono più riconoscibili e al tempo stesso godibili anche da noi perché sempre più raramente li troviamo da qualche parte.
Il locale sarà molto festivo, ma esteticamente di design grazie all’architetto Giacomo Carassale. In sala troverete Giuseppe Saccà, in cucina Giuseppe Alampi.
Chiudiamo questa lunga e bellissima chiacchierata con la mia domanda di rito: se pensi alla Liguria come la descriveresti in 3 parole e perché?
SALE, perché lo respiriamo, perché ci distingue da chi vive altrove.
FASCE, perché sono l’emblema dell’eroicità ligure, di chi dà valore alle cose.
MIO PADRE, non c’è bisogno di dire perché.