Quante volte in questi giorni, alla fine di una cena di auguri, qualche amico o parente imbandisce la tavola con pandolci, panettoni, preziosa frutta secca e da bere… prosecco?
Per carità, de gustibus non disputandum est, però le regole di abbinamento cibo/vino suggeriscono che con il dolce si debba bere vino dolce e qui in Liguria, da Ponente a Levante, la scelta non manca.
Moscatello di Taggia Passito
La storia del Moscatello di Taggia è antica e suggestiva e risale al Medioevo. Già all’epoca si parlava di un vino descritto come “un nettare dolcissimo” e prodotto in tutto l’estremo Ponente ligure. Qualche secolo dopo le piantagioni di questo vitigno vennero sostituite da quelle degli ulivi, la produzione si ridusse fino a quasi estinguersi a fine del 1800 con l’arrivo della fillossera.
Una ventina di anni fa però un gruppo di appassionati guidati da Eros Mammoliti, piccolo produttore vinicolo di Ceriana, e da Gianpiero Gerbi, allora giovane laureando in viticoltura ed enologia, iniziò una ricerca sul territorio. Recuperarono viti sparse tra anziani viticoltori che ne conservavano qualche pianta e si dedicarono nuovamente alla sua produzione e valorizzazione.
Il Moscatello di Taggia è un vitigno della varietà moscato bianco (come quello degli spumanti dolci piemontesi) che mantiene però le caratteristiche dei vini liguri: sapidità e freschezza. Per abbinarlo ai fine pasto natalizi si può scegliere la versione passito, prodotta da uve messe ad appassire in cassette per circa due mesi, in zone areate e ben ventilate. Un vino dolce ma non stucchevole, morbido, con un’ottima acidità che ben compensa il residuo zuccherino importante, estremamente sapido. Ottimo con il nostro pandolce genovese.
La mia scelta:
Riviera Ligure di Ponente DOC – Moscatello di Taggia Passito, Azienda Agricola Saraù
Per saperne di più – Associazione Produttori Moscatello di Taggia
Ormeasco di Pornassio Passito
Siamo sempre a Ponente, sempre in provincia di Imperia, ma questa volta nell’Alta Valle Arroscia. Qui viene coltivato l’Ormeasco, un vitigno a bacca nera, che geneticamente appartiene alla stessa famiglia del Dolcetto piemontese. La sua coltivazione è documentata già a partire dal 1300 quando il Marchese di Clavesana, che governava le terre limitrofe a Pornassio e Pieve di Teco, ordinò, pena la decapitazione, di impiantare nel suo feudo solo questa varietà.
Ai giorni nostri arriva grazie al produttore Tommaso Lupi, che negli anni ’60, stanco dei rossi allora di moda che non lo soddisfacevano, si mise alla ricerca di vitigno del territorio in grado di dar vita ad un vino importante capace di valorizzarsi con l’invecchiamento. Oggi l’Ormeasco viene coltivato da una ventina di produttori nelle zone tra Pornassio e Pieve di Teco, tra i 200 e i 700 metri sul livello del mare. La versione passita è prodotta da pochi viticoltori, un vino da meditazione, perfetto abbinamento per finire le scatole di cioccolatini che ci vengono regalate.
La mia scelta:
Ormeasco di Pornassio Passito DOC, Tenuta Maffone
Cimixa Passito
Ci spostiamo con un salto nell’altra riviera per andare a riscoprire un vitigno autoctono della Valfontanabuona in provincia di Genova, nell’immediato entroterra di Chiavari e Lavagna.
Il nome Cimixa (o Scimiscià o Simixià o Scimixà, insomma ci siamo capiti!), di origine dialettale, è riconducibile all’aggettivo “cimiciato” ossia puntinato per la presenza di piccoli puntini sulla buccia dell’acino. Come il Moscatello, anche questo vitigno era quasi del tutto estinto ma è riuscito a sopravvivere grazie agli sforzi di alcuni produttori alla fine degli anni ’90 e grazie ad un progetto della Comunità Montana della Valfontanabuona.
Si tratta di un’uva davvero particolare, spesso poco valorizzata. La resa è bassa, l’acino ha una buccia sottilissima che la rende molto delicata. Le sue uve sono molto zuccherine, storicamente venivano usate nella Bianchetta e nel Vermentino per aumentare il tasso alcolico, ma questa caratteristica permette soprattutto di ottenere vini passiti molto interessanti. All’assaggio è dolce ma fresco, sapido, caldo e di buona persistenza, da gustare sgranocchiando frutta secca e candita.
La mia scelta: Maccaia Vino Bianco Dolce, U Cantin
Sciacchetrà Cinque Terre
Non si può parlare di vini dolci liguri senza citarne il Re, lo Sciacchetrà. Citato e amato da poeti e letterari del calibro di Boccaccio, Petrarca, Pascoli, Carducci e D’Annunzio che lo definì “profondamente sensuale”, lo Sciacchetrà è un vino passito, dolce e liquoroso, prodotto nelle Cinque Terre dalle uve dei vitigni bosco, albarola e vermentino.
L’origine del nome non è chiarissima: alcuni raccontano che derivi da “shekar”, termine ebraico utilizzato per indicare una bevanda fermentata, altri dal verbo dialettale “sciacàa“, ossia “schiacciare”. Poco importa quando nel bicchiere ci troviamo un vero e proprio nettare ottenuto da uve poste ad appassire lontano dal sole per oltre 70 giorni.
Al termine dell’appassimento, quando gli acini sono ricoperti di muffa nobile, i grappoli sono diraspati, pigiati e affinati in vasche di acciaio, in botticelle di legno o in anfore di terracotta. Il risultato è un vino che spazia dalle tonalità dorate, ambrate talvolta con nuances rosse, dai profumi intensi di frutta, di mandorla, miele, di macchia mediterranea e che in bocca regala una estrema piacevolezza, persistenza ed equilibrio.
Impossibile non abbinarlo alla spongata di Sarzana, ideale per esaltare i sentori aromatici e il gusto di questo oro liquido delle Cinque Terre.
La mia scelta: Cinque Terre Sciacchetrà Anfora, Possa